mercoledì 28 gennaio 2009

U TARRAMOTU (1905)

U TARRAMOTU

U ricordu è ancora amicu,
avi nu seculu a memoria,
pe li morti soi Patri e Gloria.

Ntò cori da notti,
latruni, briganti,
cu grandi forza e arraggia
ti cacciàsti d’avànti.

Da Calabria a terra
ntò cernigghju fu cernùta,
figghjòli, vecchj, casi,
a nà botta, comu nà mbivùta.

Di li visciari arrivàu
du leoni lu ruggìtu,
chi spaventu, chi tirrori,
non c’è scampu po vaggìtu.

Maleficu animali potenti,
di lu mpernu mustrasti lu focu.
sonnu fundu dormènu li genti
arrivàu la morti ntà nu pocu.

Trema lu lettu, trema la casa,
li strati, li chjesi, puru lu mari,
a nuja vanda nu postu sicùru
sulu preghèri pò Santu e li cari.

Cu pala, cu picu, chi mani scavàti,
ndavi vivi ntè casi e puru ntè strati.
Occhj unchjàti senza chjantu
Feriti, morti dopu lu schiantu.

Zammarò, Stafanacuni, Piscopiu,
a vita, i pagghjàri, tuttu sciundìu.
Partiru li genti, s’indijru li figghj,
st’eventu terribili mai u ti meravigghj.

Muntalauni, Zungri, Trupia,
paisi jettàti, duluri ntà facci.
Guvernu rigali tardu arrivasti
nenti facisti du mpacciu mi cacci.

L’ottu è nu numaru comu tant’atri,
venìti e leijti, li fotu guardàti.
È veru si, co tempu passàu
a marvaggità chi eppi nci restàu.

martedì 27 gennaio 2009

La leggenda dei venti

La Leggenda dei venti

Il soffiatore, narra, l’origine mitologica dei venti, identificandoli per come oggi vengono classificati.
Descrivendone le caratteristiche peculiari che li contraddistingue, il loro nome, la loro direzione, in base ai punti cardinali per come rappresentato nella rosa dei venti.
La loro invisibilità e impalpabilità, tuttavia, non ha impedito all’uomo di riconoscerli, individuandoli con il loro specifico nome e a tenerli nella dovuta considerazione.

Le isole Eolie o Lipari nella mitologia greca erano il regno di Eolo, dio e custode dei venti, del dio Vulcano (Efesto) e dei Ciclopi.
Eolo era figlio di Poseidone ed Arne ed ebbe, da Zeus, il compito di controllare i venti.
Esso nella sua qualità di principe, governava una colonia sulle isole Eolie.
Era molto famoso, e raggiunse una certa fama, in conseguenza alla sua sagacia, perchè riusciva a prevedere il tempo in dipendenza della forma delle nubi e di vapori che sovrastavano un vulcano attivo, probabilmente lo Stromboli.
La primaria credenza, era che tutti i venti abitavano in Tracia, secondo una tradizione successiva, nell’ isola di Lipari, sotto la custodia di Eolo, che viveva in una caverna sul mare con la moglie, sei figli e sei figlie.
Dal suo nome le isole furono anche dette Eolie.
Secondo la mitologia greca Eolo dirigeva e li liberava i venti custodendoli dentro le caverne e dentro un otre a Lipari.
Per decisione di Zeus, i venti, furono affidati a Eolo, affinchè venissero tenuti sotto controllo, allorquando, durante le loro scorribande fra i tanti danni provocati, distaccarono la Sicilia dal continente.
Tra questi c’erano quattro fratelli che rappresentavano i venti principali: Borea, il più violento, vento del nord che per amore delle cavalle di Dardano si trasformò in cavallo e generò dodici puledri veloci come il vento; Zefiro, vento dell’ovest, dolce e benefico che annuncia la primavera; Euro, vento dell’est, a volte tempestoso e a volte asciutto che portava bel tempo; Austro, (Ostro) vento del sud, caldissimo e apportatore di pioggia, raffigurato sempre bagnato.
Altri venti sono: Libeccio, vento del sud ovest avvolto dalla nebbia; Cecia, vento del nord est, vecchio con coda di serpente e un piatto di olive in mano; Apeliotes, vento del sud est nelle mani del quale c’erano frutti maturi; Schirone, vento del nord ovest con un’urna piena d’acqua pronta ad essere rovesciata sulla terra.
Eolo ebbe dodici figli, sei femmine e sei maschi che si unirono tra loro creando altri venti.
Fu proprio nelle isole Eolie, secondo il racconto di Omero, che Eolo ospitò il mitico Ulisse quando questi approdò nell’arcipelago siciliano e, commosso dal racconto di costui, gli regalò un otre di pelle dentro la quale erano rinchiusi i venti contrari alla navigazione.
Ulisse, terminato il suo soggiorno a Eolia, imbarcò l’otre e salpò verso Itaca, facendo soffiare solo il dolce Zefiro ma mentre l’eroe dormiva, i suoi compagni di navigazione, convinti che l’otre fosse piena di tesori, l’aprirono liberandone i venti che scatenarono una terribile tempesta che fece perdere alla nave la strada del ritorno quando ormai erano in vista delle coste natie e respingendo l’imbarcazione nuovamente indietro.
'Arrivammo all'isola Eolia. Qui abitava Eolo, figlio di Ippote, caro agli dei immortali. ........ Per un mese intero mi ospitava e mi faceva domande su ogni cosa, su Ilio e le navi degli Argivi e il ritorno degli Achei. ........ Mi diede un otre di pelle, scorticava un bue di nove anni, e dentro vi legò i viaggi dei venti mugghianti. Poi legava l'otre in fondo alla nave con una lucida funicella d'argento, perchè non ne sfuggisse un soffio, anche per poco. Per nove giorni navigammo, dì e notte, e nel decimo ormai appariva la terra dei padri, e già vedevamo gli uomini tener vivi i fuochi: erano vicini. Allora un dolce sonno mi venne addosso, stanco com'ero. E i compagni parlavano tra loro e dicevano che io mi portavo a casa oro e argento, i doni avuti dal magnanimo Eolo. ...... Slegarono l'otre, i venti tutti sbalzarono fuori. E subito li afferrava la procella e li portava in alto mare, tra pianti, lontano dalla terra dei padri. E le navi erano portate da una maligna tempesta di vento ancora all'isola Eolia: piangevano i compagni.'
Per i Greci e i Romani, grande importanza avevano i venti, in quanto, essi scandivano la loro vita nelle principali attività: agricoltura, commercio e navigazione.
Pertanto, i racconti mitologici sono ricchi di rappresentazioni di questi importanti elementi naturali.
Vi erano venti, in particolare quelli derivati da Tifone, mostro capace con il soffio infuocato di portare scompiglio e distruzione, che erano contrari all’uomo.
Il mito dell’Etna si collega direttamente a quello di Tifone.
Quando Zeus scaraventò i Titani nel Tartaro essi non si diedero per vinti.Tartaro, per vendetta, si unì con Gea e procreò Tifone, mostro orribile, alto come le montagne, che aveva torso e braccia d'uomo, ma cento teste di serpente. Nessun altro gigante poteva competere con Tifone per statura e forza: era alato e dalle bocche delle sue cento teste gettava fuoco e mandava ruggiti e sibili.Il mito narra che quando gli Dei videro arrivare Tifone sull'Olimpo scapparono tutti tranne Zeus e Atena.
Zeus, allora, scagliò alcuni fulmini contro Tifone e lo colpì con una falce d'acciaio, affinché non potesse contrastare la sua sovranità.
Benchè ferito Tifone riuscì tuttavia ad avere la maglio su Zeus: avvolto nelle spire dei serpenti, non poté più difendersi e si lasciò strappare da Tifone la falce. Con la falce Tifone amputò a Zeus i tendini delle mani, lo trasportò in una grotta della Cilicia, e nella medesima grotta nascose i tendini, avvolti in una pelle d'orso. Ermes ed Agipan, però, rubarono i tendini e li restituirono a Zeus, il quale riapparve in cielo in un carro tirato da cavalli alati e riprese il combattimento con Tifone.
La lotta durò a lungo ma alla fine Zeus lo incatenò supino sotto l'isola di Sicilia che egli, con la sua mole, occupò tutta, da Capo Peloro a Capo Pachino e sino al Lilibeo e sulla testa di mezzo gli pose come peso il cono dell'Etna.Il mito narra che Tifone rimase per sempre sepolto sotto l'Etna così ogniqualvolta si scuote nel tentativo di liberarsi fa tremare la terra che lo sovrasta, mentre dalla bocca vomita fuoco e fiamme, e sputa cenere e lapilli.
I più importanti, da conoscere, a garanzia di tranquillità durante la navigazione, si diceva fossero i figli di Astreo (il Cielo stellato) e di Eos (l'Aurora); erano quattro: Borèa dal nord, Noto dal sud, Zefiro da ovest ed Euro da sud-est.
Borea od Aquilone, considerato come il soffio stesso di Zeus, è un vento impetuoso che spira dal nord con grande forza, particolarmente venerato dagli Ateniesi, convinti che avesse provveduto, con un tremendo uragano, a sgominare la flotta di Serse, il re persiano che minacciava la Grecia con una colossale spedizione.
Il soffio di Borèa faceva tremare la terra ed agitare il mare, per questo si diceva, in un’antica leggenda attica, che fosse rapitore di fanciulle, si raccontava appunto di Orizia figlia Eretteo, rapita da Borèa mentre stava giocando sulle rive dell’Illisso. Essa divenne poi, dopo questo rapimento, madre delle Boreadi (Calai e Zete), ricordate nella storia degli Argonauti.
Noto, l'umido vento del sud, porta le piogge e rende difficoltosa la navigazione in certi periodi dell'anno.
Zefiro, che aveva generato Xanto e Balio, ossia i due cavalli di Achille, chiamato dai Romani Favonio, è particolarmente gradito perché annuncia la primavera e la bella stagione, favorendo la germinazione delle sementi e la ripresa della natura dal lungo sonno invernale.
Euro, infine, che i Romani chiamavano Vulturno, soffia da sud-est e porta ora la siccità, ora le piogge.
Pure i venti secondari erano tenuti in giusta considerazione, poiché avevano il potere di provocare anch'essi effetti diversi.
Rappresentati in forma umana, con le ali e con le guance vistosamente gonfie nell'emettere un soffio potente, sono altri quattro: Caecias o Aquilone dal nord-est, Apeliotes dall'est, Lips o Africo (poi conosciuto come Libeccio) dal sud-ovest, e Skyron dall'ovest o nord-ovest.
Otto dunque (quante ne vennero raffigurate nell'edificio costruito ad Atene nel I sec. a. C., la cosiddetta Torre dei Venti) le creature quasi divine tenute in gran conto e onorate dalla gente di mare, per la quale sempre hanno avuto precipua importanza, tanto che nella religione romana i venti e le affini tempestates erano collegati al culto di Nettuno.
La Torre dei Venti di Atene - costruita nella prima metà del I sec. a.C. dall'astronomo Andronico di Kyrrhos in Macedonia - è un edificio ottagonale di marmo bianco, di cui ciascun lato, di 3.20 m di lunghezza, è sormontato da un bassorilievo con la raffigurazione di un vento.
Al culmine della Torre si trovava un tritone di bronzo che girava al soffiare del vento e si fermava secondo la direzione di questo, in corrispondenza della figura pertinente nel rilievo.
Sepolta dal terriccio nel corso dei secoli, fu riportata alla luce verso la metà dell'Ottocento dalla Società Archeologica Greca, ed è stata sottoposta a restauri nel 1916-1919 e nel 1976.
Per gli antichi greci, anche i venti erano oggetto di culto, in particolare per chi doveva intraprendere dei viaggi via mare e quindi cercava di propiziarseli con preghiere e sacrifici.
L’arcipelago delle isole Eolie è situato nel mar Tirreno meridionale, sul lato nord orientale della Sicilia.
Le loro coste, nonché il mare sono di incomparabile bellezza con paesaggi di eccezionale e particolare incanto.
La caratteristica, segno inequivocabile della loro origine vulcanica sono: il fango bollente a Vulcano; le isolette e gli scogli che emergono un pò ovunque dal mare; le sorgenti di acqua calda; le bolle gassose che spruzzano l’acqua marina a diversi metri d’ altezza; le grotte di lava nera, sulle cui pareti si ammirano riflessi iridescenti; rocce di varie forme, che ricordano colonne, guglie, pennacoli; per non parlare poi degli scogli, annomati in dipendenza della loro forma: dattilo o dito, rivolto verso il cielo; le formiche: la lisca bianca; la Lisca Nera; Mastro Cilivrasi che dà l’idea di un uomo avvolto in un mantello, con il viso rivolto verso l’alto.
Veramente tante, le leggende esistenti su questi splendidi posti; ogni grotta e antro è ricordato come la dimora di un mostro marino: Filicudi era forse l’isola galleggiante di Eolo; nel cono nero di Vulcano cavalcò il cavallo di Teodorico, re dei Goti, che si spinse sull’orlo del cratere e precipitò con il suo cavaliere in un mare di fuoco.

U HJUHHJATURI (Il soffiatore o il vento)

U HJUHHJATURI
Utri unchjàta, di li setti appanzunàta
lesta canta la nzapògna sonatùra di friscàta.
Ciaramejàru, hjatatùri d’ogni tempu
a Eolia o Lipari lu cumbèntu.
Vo signurìa ntrà l’arcipelagu tenitili boni
ca ndi spagnàmu pè li danni e li distruzioni.
Siculi ncarceràti a lu confìnu di lu continenti
e tempi di li tempi pe nu spiziu mpertinènti.
Pe curpa vostra, libbari a Brigghja sciorta
alluntanastivu la trinacria i mani storta.
A penitenza è dintra na peji, jocu siti mbujàti
Sulu lu patrùni, si boli, vui hjatàti.
Già nà vota, pè chiji marinàri ndubbitàti
di Troja lu guerrèru perdìu li stràti.
Nuju vi vidi, né s’arrèsci u vi toccàmo
comu l’arburu pega, però sapìmu u vi chiamàmu.
Li jorni chi sii forti di settentriùni,
Borea, li cazzi toi li spochi pè mari, terri e pè vajùni.
Quandu arrivi du ponenti e si duci i caramellu
Zefiru cangia la stagiuni, mutàmundi lu mantellu.
Du levanti manticiji tempestusu,
atri voti asciuttiàtu, Euru sii davèru curiùsu.
Di li parti nostri hjuhhj debuli e stancu
Du meridiuni, Ostru non è capaci u teni vancu.
Ma non finìu ccà lu hjatatùri
Figghj, nipùti, d’arràzza sempri puri.
A stija i Rosa, ottu di cunta ntà tuttu lu frunti
n’atri quattru a menzu all’atri quattru punti.
Cuminciàmu i sutta, no pè preferenza
ma pecchì vogghju mu si capisci la mia appartinènza.
Aria cadda chi tagghja lu hjatu
di lu menz’jornu orientàli, rina di Sciroccu vola atu.
Friddu, tagghjenti, comu lama di rasolu
I nord orienti, lu grecàli janchìja lu solu.
Gridànti e sperzànti di forza prepotenti
Lu maistràli, vota la manica a meridiuni i l’orienti.
Quandu arriva l’ammaraggiàta e chjovi cu li cati
lu marinàru dici c’a libecciu sugnu ligàti.
Eccellenti comandanti nommu t’addormenti , di tia abbisognàmu
ti vozzimu tantu beni e na sula cosa ti cercàmu
hjatija sempri e quandu voi
risparmiandi però li jorni di li nervi toi.

lunedì 26 gennaio 2009

IL SOFFIATORE (il vento)

Otre sazia, dai sette ingravidata.
Lesto sfiato di zampogna suonatrice di fischiata.
Ciaramellaro soffiatore d’ogni tempo
di Eolia o Lipari il convento.
Maestà nell’arcipelago teneteli buoni
pè paura di danni e distruzioni.
Siculi cavalli confinati la dal continente
dai tempi dei tempi pè sfizio impertinente.
Bizzarri destrieri, liberi a briglia sciolta
allontanaste il trinacria di mano storta.
Nell’eterna pelle sigillata, prigionieri scalpitanti
d’ogni via, canti d’ urla mulinanti.
Già prima,dubbiosi, d’Itaca marinari
l’ombelico, sturato hanno sui sette mari.
In pari tempo non v’è occhio per sbirciare
né mano giusta l’incorpore palpare.
A tal mistero, inchino regale pe onorarvi
Stranezza vole che si sa come chiamarvi.
Nelle notti ei dì, scorazzante da settentrione
Schiumeggia il mare, a Borea piegasi il pennone.
Ti s’ aspetta da ponente, melissato a primavera
delizioso Zefiro, sibilo d’amore d’una capinera.
Alba di vita sorgente dal levante
Da li, asciutto o furioso, Euro è imperversante.
Da meridione in loco giungi fievole
dal lontano Ostro, tocco carezzevole.
Unico custode di cangiante buffo del soffiatore
dinastia Eolica amorevole curatore.
Doppio di quattro con altro doppio su tutto il fronte
stella in mezzo all’ altre quattro punte.
D’otto cardinali il nesso comincia a mezzogiorno
Ruggente tempo, natio punto a cui sempre torno.
Afa scirocca del mezzo dì orientale
fornace di ghibli sullo stivale meridionale.
Gelido tagliente aere, respiro del nord oriente,
Ellenica membranza timore riverente.
Urlante, sferzante, Maestro prorompente
coda di manica a sud d’oriente.
Connubio d’acqua, ribollio marino,
Turbine di libeccio indomo, vento malandrino.
Eccellente comandante, governa l’aere sul mondo,
sii calmo, mite, non iracondo.
Fiata sempre e quando vuoi
Risparmiandoci i giorni dei nervi tuoi.

PERSEPHUNA (Dialetto Vibonese)

PERSEPHUNA

Loggia di lu Patri beneditta,
specchjanti ntà lu mari di Lampetia.
Storia e faragula la menti teni airta.

Carizza di Zefiru, Odissèo dici.
Rosa ventusa chi du ponenti hjati
Sulu ccà, sii accussì duci.

Suavi Vista di li Ciclopi Terri.
Forza potenti ntè visciari gugghjenti.
Barchi juntati all’ariu di li cirri.

Elìa e Muzzari arridinu ntra lu gurfu,
figghj ammelàti du cchjù atu Riventinu.
Ntra lu menzu v’è Caronti fumaturi di lu zurfu.

Cchà, propriu cchà, li pii a ttia votàti
Dezzàru ricunuscenza cchjù c’allatri.
Mammata perpetua lu vernu cu la stati.

Guardiana petra d’Ipponiu lu munti.
Surgiva casa di Persephuna liggenda.
Rispettu e divozioni a ttia pemmu ndi cunti.

Figghja, discindenti di famigghja ndivinata.
Siminata di lu rumbu ntra la terra
Fruttu nobili, di mamata ncarnata.

Di hjancu all’acqua trisceliana di Pergusa,
t’abbrazzau l’umbra rignanti.
Gnura di lu scuru cantau la musa.


sei coccia di frutta magàra arrubinata.
Porta chjusa a lu suli accaluranti.
Mugghjeri d’ Adi pè sempri distinata.

Sbentura, perdita grandi.
Li messi non vozziru cchju di chi sapìri,
capizzàli i morti, tu cumandi.

A la porta di lu suli s’abbussàu cercandu.
Pocu riposu subba l’agelasta petra.
Lu patri di li patri azàu lu jiditu pè cumandu.

Sei coccia, tantu, pè li misi all’annu,
mu si torna a la terra in paru tempu.
S’apri la porta di l’Avernu senza affannu.

Stigi, stortu a lu traguardu porta,
D’avanti nu guardianu i natru mundu.
Ribbrezzanti mastinu pè cui non era morta.

Felinu nimaliu a tri testi orripilanti
L’animi alluntàna senza mu hjata.
Tirrori di lu pilu asserpentatu sibilanti.

Psicupompu avi la via, quando iju voli.
Nu viaggiu ntrà lu nigru mundu.
Demetra a Persephuna profumu di violi.

A nà nticchja di nu lustru a menzu, du menzu, di lu menzu,
nu cronu signa metà di lu annu,
cacciati vannu dui misi e dui jorni e menzu.

Cielu bellu, caddu e suli longu doppu lu viernu,
signanu di sempri li stagiuni
Onori a Persephuna chi nchjana di lu mpernu.

Ma… e ,si non fussi statu?
Non è megghju mò, grazzi a lu ngannu?
Ma… è liggenda o storia e fatu ?

Commento di Persefone

COMMENTO
Il luogo descritto nella composizione, corrisponde ad uno dei tanti belvedere, patrimonio naturale della città di Vibo Valentia.
Esso è meta delle passeggiate dei vibonesi che vi si recano non per abitudine ma per ammirare la grandiosità dell’Onnipotente, dispensatore di angoli di Paradiso alle popolazioni locali, affinchè esse meditino e apprezzino il valore pulsante della vita, l’azzurro del cielo, l’intenso panorama marino, il verde Appennino, le meravigliose isole Eolie, la carezza morbida del vento annunciatore della buona stagione, lo splendore immenso del sole e delle altre stelle.
Tal panorama, inebriatore dell’animo umano, induce a infinita gioia e perpetua lode all’ artefice di tutto ciò.
Sul belvedere del parco delle rimembraze, così è chiamato il luogo, insistono ancora i ruderi di un tempio che fu dedicato a Persefone.
La straordinaria bellezza di questo posto, dominante sulla costa tirrenica, sta ad indicare la grande importanza che le genti del tempo diedero al culto di Persefone.
Dal punto di vista storico, nella seconda metà del sec. VII, a.C., inizia in Italia l’espansione coloniale Greca.
L’Italia meridionale è interessata da questo fenomeno a cominciare della costa Jonica fino al golfo di Taranto, poi sul litorale Tirrenico fino a Cuma in Campania.
Gli Achei del Pelopponeso fondarono: Sibari, Mataponto, Crotone, Siris, Caulonia. A sud di Caulonia i Locresi fondarono Locri Epizefiri; Gli Spartani fondarono Taranto; I Calcidesi fondarono Rhegion.
Più tardi sorgono le colonie sul Tirreno: Sibari fonda Laos, Schidros e Poseidonia; Crotone fonda Terina e Temesa e Locri fonda Hipponion, Medma e Metauro; Crotone sulla costa Jonica fonda Macalla Crimisa e Petilia, e poi Skyllation.
Così nella nostra Regione s’innesta, come scritto da Francesco Albanese, la grazia e la gentilezza Greca ricca di arte e cultura.
In questo eccezionale contesto naturale, storico e spirituale si lega il mito, cantato con la leggenda di Persefone o Kore che, sorpresa dal dio Plutone mentre giocava con alcune ninfe sulle rive del lago di Pergusa, la rapì portandola con se nel suo regno per sposarla.
Da quel momento Persefone diventò la Dea del mondo sotterraneo.
Un’altra versione, poco accreditata della leggenda, e quindi da scartare, racconta che Ermippo sovrano d’Ipponio e Calais sua moglie, che gli successe nel governo della città, furono divinizzati dai devoti cittadini i quali ad Ermippo diedero il nome di Giove Ipponiato e a Calais quello di Demetra o Cerere, fu divinizzata anche la figlia Persefone che sorpresa mentre coglieva fiori sul nostro lido, fu rapita dal siculo pirata Plutone.
Gli Ipponiati per confortare la madre che la piangeva ormai perduta, le fecero credere che la fanciulla fosse stata rapita dal Dio Plutone e convertita in divinità.

Piazza d’Armi, si affaccia sulla costa tirrenica della Calabria centrale, nel mare del golfo di Lamezia Terme.

Qui, oltre alla Paradisiaca vista, si apprezza il piacere della carezza, simile al delicato tocco di un’ amante, del vento di ponente dolcificatore dell’aria, portatore della primavera.

Lo sguardo rivolto verso Ovest, mette a fuoco l’arcipelago delle isole Eolie ancor più evidenziate nell’ora in cui sole e mare s’incontrano in un sposalizio di colori caldi, avvolti da un purpureo mantello, a testimonianza dell’innata e reciproca gelosia di cielo, mare, terra e sole.

Nella spettacolarità di questo scenario, la mitologia Greca, come se volesse mettere un sigillo reale, ha collocato figure importanti del Pantheon.

Nascosto nelle viscere di Vulcano, l’omonimo Dio o Efesto: il fabbro; a Eolia: il custode dei venti, Eolo; Nelle grotte della costa Jonica Sicula, i figli di Poseidone: i Ciclopi.

Da questa veranda è possibile ammirare le imbarcazioni, che sembrano volare sulle onde, allorquando si pesca il pesce spada.

Osservando il levar del sole, l’occhio, inevitabilmente si posa sul declino occidentale del massiccio del Reventino che rappresenta il prolungamento della Sila Piccola e si affaccia sulla parte più stretta della penisola (istmo di Marcellinara), largo appena trenta chilometri tra i mari Jonio e Tirreno.

Tra le due parti più collinari del Monte Reventino, il S.Elia e il Muzzari, in una valletta situata al centro di essi, nel territorio del comune di San Biase, sgorgano le acque termali di Caronte, identificate come Aquae Angae degli itinerari romani del II sec. d.C., anche dette nell’XI secolo acque calde del Nocato o Nicastro.

Vista dal mare piazza D’Armi, allorquando il Tempio di Persefone rappresentava la maestosità della divinità pagana, sembrava posto là, a custodia del monte Ipponio, come se ci volesse raccontare la leggenda della figlia di Demetra.

Noi affascinati dall’intenzione delle pietre rimaste, ascoltiamo con grande devozione e interesse ciò che accadde o che non è mai accaduto a Persefone.

Figlia di Zeus re degli Dei, Dio del cielo e del tuono e di Demetra dea del grano e dell’agricoltura, artefice del ciclo delle stagioni, della vita e della morte, incarnatasi in età giovanile nella figlia Persefone, mentre stava giocando con alcune ninfe sulle sponde del lago di Pergusa, nelle vicinanze di Enna, venne rapita da Ade, Dio dell'oltretomba, che la portò negli inferi per sposarla ancora fanciulla contro la sua volontà, divenendo così Dea del mondo sotterraneo, della gente senza corpo, del mondo immateriale.

Una volta negli inferi le venne offerta della frutta, ed ella mangiò senza appetito sei semi di melograno.

Persefone ignorava però l’ inganno di cui Ade l’aveva fatta oggetto e che consisteva nel fatto che, chi mangiava i frutti degli inferi era costretto a rimanervi per sempre.

Da quel momento si chiusero per Persefone le porte dell’Averno, impedendole di ritornare sulla terra, regnando così per l’eternità assieme a suo marito, sul trono del mondo delle ombre.

Per Persefone non sarebbe stato difficile ritornare sulla terra, era sufficiente seguire a ritroso il decorso del fiume Stigi e il gioco era fatto ma avrebbe dovuto fare i conti con una Bestia Immonda che Ade aveva messo a guardia per impedire a chiunque di entrare ed uscire dagli inferi.

Si trattava di un cane mostruoso, con tre teste e il cui corpo era ricoperto anziché di peli, da serpenti pronti a mordere.

La povera Demetra vagò per nove giorni e nove notti alla ricerca della figlia, non riuscendo però ad averne notizia.

Si fermò solo pochissimo tempo per riposare sedendosi su una pietra, l’agelasta cioè della tristezza per come era lo stato d’animo di Demetra.

Alla fine Demetra chiese notizie di Persefone a Elio, il Dio del sole, che al mattino si svegliava da Oceano a oriente, percorreva tutto il cielo e andava a dormire a Oceano in occidente, e nel tragitto niente gli sfuggiva di quello che stava succedendo.

Conosciuta la Verità, l’ira della madre si scatenò in tutta la sua violenza, impedendo che sulla terra ci fosse il ciclo delle stagioni e facendo si che l’inverno regnasse per sempre.

A poco a poco la terra incominciò a morire, niente più grano, ne frutta, ne fiori, ne legumi, niente, proprio niente, solo grandi carestie e tempeste.

La morte, al capezzale della terra malata stava per portarsela via, quando l’intervento di Zeus, che non poteva acconsentire quanto si stava verificando, ordinò al suo messaggero Hermes di andare negli inferi e riportare indietro Persefone.

Con l'intervento di Zeus si giunse ad un accordo, per cui, visto che Persefone non aveva mangiato un frutto intero, sarebbe rimasta nell'oltretomba solo per un numero di mesi equivalente al numero di semi da lei mangiati, potendo così trascorrere con la madre il resto dell'anno.

Così Persefone avrebbe trascorso sei mesi con il marito negli inferi e sei mesi con la madre sulla terra.

Il ritorno di Persefone suggellò sulla terra grande felicità in sua madre, la vita riprese a fiorire e le messi a germogliare in primavera ed estate.

Così e per sempre, ogni anno si attendeva il ritorno di Persefone affinchè ad Eleusi si dessero inizio ai festeggiamenti in suo onore e di Demetra che portavano la bella stagione.

I misteri eleusini erano riti religiosi che si spiravano al mistero della fertilità, della nascita e della morte, e non solo in relazione all'agricoltura, ma anche come speranza di una vita ultraterrena migliore.

I riti eleusini si svolgevano in due momenti, primavera ed autunno.

Il primo, la purificazione, una sorta di momento preparatorio che aveva luogo in primavera (piccoli misteri), e il secondo, il momento consacratorio, cui erano legate le feste (grandi misteri) autunnali.

Tale culto inoltre mantenne il carattere di mistero, in quanto era riservato ai soli iniziati, i quali potevano accedere al luogo sacro.

PERSEFONE

PERSEFONE

Loggia d’Olimpo sigillata,
riflessa nell’acqua Lampetina.
Nettare grecale a Kore Indivinata.

Rosa ventosa, di ponente fiata,
carezza di Zefiro, Odissèo narra.
In tal loco, cotanto sii addulcinata.

Soave occhio alle Ciclopi terre
Al rifugio dell’adusto forgiaro
Al natante, irto sui cirri.

Elìa e Muzzari sorgono nel golfo,
ammielati figli del dritto Reventino.
Nel mezzo v’è Caronte fiatatore dello zolfo.

Qua, le pie votàte,
magnificato t’hanno, genuflesse orando,
grate, per l’eternarsi l’inverno con l’estàte.

Guardiana pietra d’Ipponio il monte.
Delubro maniero di Persefone membranza
Devota deferenza a te che racconti.

Ceppo pregiato di lignaggio Divinata.
Fecondo rombo per mamma terra
Cretura nobile, madre incarnata.


Attiguo all’acqua Trisceliana di Pergusa,
galeotto abbraccio del Duce tenebroso.
Regina dell’incorpore t’ascrisse la musa.

Maliarda mela, rossa arrubinata.
Porta chiusa al sole accalorante.
sposa Perenne a Plutone destinata.

Sventura, perdita grande.
Lutto in terra, messi scarne,
Al capezzale d’essa, la morte comandi.

All’astro lucente, bussasi cercando.
mesto riposo su l’agelasta pietra.
Il Padre levò il dito intimò comando.

Sei semi, tanti i mesi all’anno,
ritorno alla materia in pari tempo.
S’apre a Hermes l’uscio dell’Averno.

Stigi storto in meta porta.
Innanzi, secondino d’ altro regno,
immondo mastino per chi non era morta.

Felina bestia a tre teste orripilante,
Feroce dell’etere aguzzino.
Incubo peloso asserpentato sibilante.

Psicopompo, corriere suggellato
Librato s’ebbe nell’oscuro mondo.
Eleusino fasto, mistero designato.


Ancor meno di un lustro a metà, la metà della metà,
per arrivare in mezzo all’ anno
cacciati vanno due mesi e due giorni e mezzo.

Primaverile melissa, aere poi dell’ inverno,
segno perpetuo del succeder la stagione.
Onori a Persefone salitrice dall’Averno.

Ma, e… se non fosse stato?
Non è meglio ora grazie all’inganno?
Fantasioso mito o storia e fato?