lunedì 2 febbraio 2009

STORIA DEL SISMA DEL 1905

STORIA DEL TERREMMOTO DEL 1905
U tarramotu: in poche battute, racconta in versi dialettali, la catastrofe sismica che si verificò nella terra di Calabria nel 1905 e che rase completamente al suolo diversi paesi del circondario di Monteleone ( l’attuale città di Vibo Valentia) cagionando oltre seicento morti. Il successivo terremoto, ancor più catastrofico, verificatosi nel 1908 che provocò circa centomila morti, ha fatto si, che per effetto di un meccanismo difensivo della psiche umana, rispetto a due cataclismi verificatisi in pochissimo tempo, rimuovesse e collocasse in una sola data entrambe i terremoti. Di fatti, si parla solo del sisma del 1908.
La Calabria, già terra di sventura, di povertà, di emigrazione, di sofferenza, di sfruttamento, aveva conosciuto l’oppressione dell’esercito, pepetrata ai danni delle ribellioni contadine anche se ufficialmente l’intervento dei soldati e dei carabinieri era diretto contro il banditismo meridionale.
Stringe veramente il cuore mentre leggo le cronache dei giornali di allora, a riscoprire nelle denunce di quel periodo, l’antico malessere italiano, la lentezza dei soccorsi, il disagio e la sofferenza nell’attesa d’aiuto, la generosa solidarietà del Paese, la visita delle autorità.
A distanza di un oltre un cinquantennio il mezzo giorno d’Italia viene falcidiato nuovamente dal tremendo valzer che madre terra decide di ballare in Irpinia. Il tempo è come si fosse fermato nel 1905 e nel 1908 o ancor prima nel 1894 fino ad arrivare al 1783. Stessi problemi, stesse angosce, stessa generosità del Paese, stessa solita visita delle autorità, mai che la gente durante la criticità del disagio e del dolore, possa sentirsi vicino lo Stato, solita lentezza e inadeguatezza nella ricostruzione, solite ruberie.
Come se non bastasse, a tutto ciò, si aggiunge, il malessere della terra colpita da febbre alta indotta da brividi incontrollabili.
La poesia termina con la considerazione che non si conosce la data quando il terremoto colpirà nuovamente, la cosa certa, è che la sua malvagità distruttiva e omicida non è mutata.
Alle 2,45 della notte tra il 7 e l’8 di settembre del 1905, quando la popolazione calabrese, in particolare, quella residente nella fascia centrale della Regione, nei circondari di Monteleone e di Nicastro, stava dormendo, con un boato terrificante, la nostra bella terra è stata scossa con violenza tale da far crollare quasi tutte le case e le baracche esistenti nei luoghi interessati dal sisma.
Le vittime del terremoto furono 557 e 2615 i feriti.
Furono distrutti o gravemente danneggiati 326 comuni con un totale di 753 centri abitati, 135 in provincia di Catanzaro, 107 in quella di Cosenza e 84 in quella di Reggio Calabria.
In tutte e tre le provincie le case distrutte sono state 8220.
Quasi completamente distrutti furono: Zammarò (70 morti), Parghelia (62), Piscopio (60), Stefanaconi (65), San Leo di Briatico (24), Aiello (23), Martirano (16), il rione Forgiari di Monteleone (6 morti e 26 feriti).
Ma gravi danni e numerosi morti e feriti ci furono in pressoché tutti i paesi e paesini dell’area colpita, Tropea, Pizzo, Mileto, Zungri, Cessaniti, Sant’Onofrio, Triparni, San Costantino.
Saverio Di Bella scriveva: nel ricordo delle case crollate, dei superstiti intontiti, dei morti tolti alla terra delle case per essere consegnati alla terra dei cimiteri, dei corpicini dei bambini sui quali si era abbattuta la furia dei cani prima che la pietà dei sopravvissuti li recuperasse alla cristiana sepoltura, qualcuno piangeva in silenzio.
E sapeva già che ogni paese e ogni città della zona aveva la sua piaga aperta, il suo rione baracche, la sua memoria di terrore e di morte, la paura collettiva mai rimossa che la tragedia si ripetesse…..
In effetti dopo il terremoto del 1905 ci fu quello, ancora più devastante e geograficamente esteso del 28 dicembre 1908. Quest’ultimo, anche per effetto del maremoto, annientò Messina e Reggio Calabria.
Sul Corriere delle sera del 12 settembre 1905 per mano di Luigi Barbini, si leggeva: nella emozione, nella concitazione di quest’ora, non posso che gettarvi un grido d’aiuto; più tardi saprete in dettaglio quanto avvenne di spaventoso, saprete le stragi che la terra ha commesso, le infamie di questa terra che pur gli uomini chiamano madre…..Qui intorno si muore di fame e di sete: i soccorsi, per quanto alacremente portati, non bastano; manca il pane ai sani, la carne ai feriti, manca l’acqua, manca il ricovero ai morenti.
Intorno ai paesi una lugubre folla dolente si accascia: vi sono ventimila persone che perdono tutto, che non hanno neppure recipienti per andare alle lontane fonti per attingervi; sono silenziose moltitudini che non possono staccarsi dalle rovine delle loro case, dove i cari morirono e che, stordite, aspettano senza forza quegli aiuti che non arrivano mai.
In alcuni luoghi come Monteleone, poche case crollarono; ma negli abitanti v’è ora il terrore della casa.
Essa è il nemico. Nessuno ardisce più affidarvisi. L’amato rifugio, il desiderato luogo del riposo, rinchiude un tradimento, non protegge più, ma uccide; e tutta questa misera gente guarda dalla strada la sua abitazione come si guarda un mostro, scorgendovi una minaccia ad ogni fessura che si rivela sui muri.
Nuove scosse arrivano ogni tanto; Ognuna di esse è seguita da un urlo della folla.
Fortunatamente le zone del massimo disastro sono piccole e non molto popolate, altrimenti la catastrofe sarebbe stata senza precedenti fra i numerosi delitti della natura.
Qui sembra che Monteleone sia stato il centro del movimento sismico e, per un fenomeno che ricorda i tifoni, il centro non ebbe i massimi danni, ma intorno le grosse borgate vennero rase al suolo.
Trovai il loro aspetto immensamente più spaventoso che non quello delle città bombardate, poiché in alcuni luoghi nulla, proprio nulla rimane.
I primi segni del terremoto si scorgono alla stazione di Sant’Eufemia, mezzo demolita, ma molto prima ancora si scorgono i segni del terrore.
La zona della paura è sempre più vasta della zona del pericolo.
Tutte le popolazioni sono fuggite dall’abitato e s’accampano sulle sabbie del mare.
Si vedono strani e multicolori attendamenti.
Gente venne dalla città alla spiaggia, altra discese dalle colline e tutte si stabilirono in questi nomadi villaggi lungo la riva, ….
I treni procedono lentamente. Si scorgono crepacci sulla banchina ferroviaria, bordeggiata da gerani fioriti.
Ecco Pizzo. Non sembra molto danneggiato, ma si vedono alcuni tetti crollati, coronamenti di edifici caduti, ventri infranti.
Alle finestre delle case disabitate non un abitante; per le vie ingombre qua e là calcinacci; sulla spiaggia si comincia la costruzione di baracche di legno.
Mentre il treno passa avviene una leggera scossa e l’angolo di una chiesa frana sollevando un nuvolo di polvere. È la chiesa di San Giorgio.
Scendo alla stazione di Monteleone intatta, ma quando la strada carrozzabile comincia ad arrampicarsi sulla montagna m’imbatto sulle rovine di una villa, di cui non rimane che un pilastro in piedi, portante in una lapide scritto il nome dell’edificio scomparso: villa Lordo. Gli abitanti sono salvi per miracolo.
Si sale ancora e si attraversa il villaggio Longobardi, un grazioso villaggio di emigrati in America costruito tutto con danari guadagnati penosamente. Poco alle donne è rimasto. Ogni casa è spaccata da larghi crepacci minacciando rovina. Gruppi di donne seggono in mezzo alla piazza e guardano stupefatte. Anche la chiesa è in pericolo.
Si sale ancora faticosamente. Monteleone occupa il culmine della montagna .. Sulle sue falde sono disseminati i villaggi colpiti dal flagello. È questa la montagna che ha tremato.
Nel centro della città i danni visibili sono pochi: volte crollate, cornicioni staccati, comignoli caduti; ma non è una distruzione. Invece una via di essa, scendente verso il sud nel rione dei Forgiari, è demolita. Le chiese pencolano, le case sono sventrate, i tetti sono caduti.
Questa strada, lunga un duecento metri, è stata scossa da una furia terrificante. Imposte divelte, rovesciate, gettate sulla strada con le loro tende aggrovigliatesi ai rottami come se le avesse spinte dall’interno un poderoso scoppio di esplosivi: ferri contorti delle balconate, che sostengono pietre oscillanti, a cui rimangono infisse delle travi; pali telegrafici abbattuti di traverso, fisse delle travi telegrafiche abbattute di traverso alla strada come fuscelli, fra un intrigo di fili spezzati; macerie, calcinacci ingombrano l’acciottolato; una folla esterrefatta guarda, senza osare d’appressarsi ai muri che lasciano cadere ogni tanto pietre, sollevando dalla gente grida che sembrano una risposta indignata.
Mentre mi trovo qui, una gran calca si appressa. È il Re circondato dal popolo, che, lasciato l’automobile, percorre a piedi la strada in rovina, e guarda commosso.
Si leva di tanto in tanto un grido “ Viva il Re ! “ Ma non v’è forza d’esultanza. Pare che dicano aiuto, tutti quei volti pallidi e tristi…
La popolazione si accampa negli orti, nelle piazze, in tende improvvisate con coperte.
Continuando a discendere a una svolta si scorge improvvisamente un accatastamento informe di travi di muri, una confusione di ruderi, ai quali il gran golfo di Sant’Eufemia azzurro pone un meraviglioso sfondo ridente. È Triparni distrutto. Ogni casa è crollata e le travature dei tetti risollevantisi tra le macerie sembrano costole e ossami giganteschi. Vicino al loro paese morto i superstiti da quattro giorni stanno come inebetiti.
Dalle macerie sono stati estratti 39 morti. Lì sull’erba sono ancora distesi i feriti che non v’è mezzo di trasportare.
Un ufficiale medico li soccorre e li assiste, ma tutto manca. Quando io arrivo, la folla mi viene incontro, poi mi seguono con implorazione.
Il parroco, un grosso uomo in lacrime, un atleta che piange, mi afferra le mani dicendomi: “ Signore, signore, manchiamo di pane. Ieri ne avemmo un boccone per uno, un chilo ogni sei persone, niente altro.
Scaviamo le macerie con le mani per cercare qualche cosa da mangiare rimasto sepolto. Non abbiamo acqua. La fonte del paese si essiccò e l’altra fonte è lontana.
Nessuno ha la forza di andarvi. Guardate, i feriti non hanno vino, né brodo, niente, nemmeno le uova.
Debbono mangiare un boccone di pane e alcuni muoiono”.
Vedo infatti una povera donna sdraiata presso un tronco di olivo. Sui suoi occhi scende il velo della morte. Essa ebbe le costole fratturate. Altri feriti gravi sono distesi all’ombra e debbono essere trascinati in giro, a mano a mano che l’ombra cammina. Vedo dei bambini feriti e non s’ode un lamento. Il silenzio è impressionante. Delle donne sedute in terra, immobili, sembrano statue del dolore.
Alcune perderono i figli. Un gran panno nero, caratteristico ornamento delle donne calabresi, scende dalla loro testa sulle spalle come un vero manto di lutto.
Negli altri paesi colpiti lo spettacolo non è meno straziante.
Stefanaconi, a qualche chilometro da Monteleone sul versante sud della montagna, era una cittadina di duemila abitanti e rimase distrutta. Passando vicino alle poche case che sembrano intatte, ci si accorge che vi sono solo mura maestre, delle vuote finestre e delle facciate. Si scorge il cielo attraverso i soffitti sfondati. Alcune abitazioni dai due lati della strada sono cadute in avanti come per precipitarsi una verso l’altra, schiantando gli alberi che ornavano in filari la via. Ora dei ciuffi e dei rami spuntano fra le macerie… Quasi tutti gli abitanti sono feriti; venti sono moribondi, sessantasei, morti, sono stati estratti dai rottami e dalle macerie. Benchè scacciati e minacciati, gli abitanti superstiti non sanno abbandonare definitivamente le mura che seppelliscono il segreto di una quiete domestica finita per sempre. Il sindaco del paese, cav. Carullo, mezzo svestito ancora perché tutto gli rimase sepolto, mi mostra le rovine del palazzo comunale e poi quelle delle sua casa, dove due ragazze sono rimaste uccise. “ Questa piazza, mi dice additandomi uno spiazzo ove ora sono accampati gli abitanti, era piena di cadaveri allineati e sporchi di sangue. Ed era uno strazio vedere i parenti abbracciarli e baciarli morti !” Poi aggiunse : “ Vennero trasportati via sopra carri di buoi come gli appestati di Milano !“ Anche qui la fame aggiunge i suoi orrori alla immensa sciagura. “ Pane!” “Vestiti!” “Siamo nudi!” “Abbiamo fame!” – si sente mormorare con voci nelle quali trema il pianto…
Piscopio, separato da Stefanaconi da una precipitosa e angusta valletta, venne non solo distrutto, ma raso al suolo. In molti punti i cumuli di macerie sulle strade superano in altezza i ruderi rimasti in piedi. Impossibile immaginare rovina più grande. Tutto il paese non è che un ammasso di calcinacci, di travi, travicelle in parte sgangherate e scheggiate, di imposte divelte, di vetri rotti, di pezzi di suppellettili.
In un piano circondato dal più folto uliveto e dalle vigne più verdi che la terra abbia mai nutrito, di un migliaio di abitanti 275 sono feriti e 59 sono morti.
Qui la desolazione appare più grande. Non so perché, ma sembra che i soccorsi non siano stati distribuiti qui come altrove, per quanto ovunque in misura insufficiente agli immensi bisogni… La folla mi circonda. Alcuni piangono. Sono uomini gagliardi, sfiniti dagli stenti. Mi sento dire: “ per carità, del pane… da ieri non mangiamo…Ho quattro figli che muoiono di fame…Noi stiamo cadendo come cani.. Ieri mezzo chilo per sette persone… A me niente…Io neppure”. Tra tutta questa gente vi sono i rassegnati e sono tanti e tanti.
Seduti ai lati delle strade, non guardano, non parlano, non si muovono, impietriti, curvi sotto il peso della sventura. Pallidi, alcuni col viso nascosto tra le mani, aspettano.
Le stesse scene, la stessa sofferenza, la stessa atroce ingiustizia della sorte trovo a Zammarò distrutta, Parghelia distrutta, a San Costantino distrutta. È stato un pellegrinaggio tremendo, il cui ricordo mi tormenta, mi affanna ancora, perché in questo male di dimenticati nostri fratelli – male che non è solo causato dalla violenza omicida di un cataclisma, ma da cause antiche e note – in questo male mi pare di avere come italiano una parte misteriosa, indefinibile di responsabilità, quella di non aver mai pensato, come nessuno ha pensato, a questa fiera, generosa gente della mia patria, che anche senza terremoto ha tanto sofferto e soffre.

TERREMOTO

TERREMOTO

Il ricordo è ancora amico,
un secolo è la memoria,
pè i morti suoi Pater e Gloria.

Nel cuore della notte
ladrone, brigante,
vigliacco rabbioso, di morte
spazzino arrogante.

Di Calabria, la terra
Nel setaccio è cernuta,
pargoli, vecchi, case,
d’un colpo come na bevuta.

Dalle visceri arrivò
del leone il ruggito
spavento, terrore,
non v’è scampo pel vagito.

Malefico animale, bestia potente
degli inferi mostrasti il fuoco.
Sonno profondo dormiva la gente
Giunse la morte di li a poco.

Trema il letto, trema la casa,
le strade, le chiese, pure il mare,
nessun loco è nido sicuro
inno al Santo, a ginocchioni pregare.

Con pala e piccone, con le mani scavate,
c’è né vivi nelle case e nelle strade.
Occhi gonfi senza pianto
feriti e morti dopo lo schianto.

Zammarò, Stefanaconi, Piscopio,
la vita, i pagliai, tutto distrutto
parte la gente, di pane è desio,
di st’evento terribile, nulla è più brutto.




Monteleone, Zungri, Tropea,
paesi rasi, dolore, fame, mesta è la gente.
Narcolettica corona del disastro correa,
dovuta visita e poi niente di niente.

Il cinque, l’otto, data antica, sorte severa,
venite, leggete, le foto guardate.
L’ora che fu, è vera
crudele e malvagio, è rimasto com’era!

mercoledì 28 gennaio 2009

U TARRAMOTU (1905)

U TARRAMOTU

U ricordu è ancora amicu,
avi nu seculu a memoria,
pe li morti soi Patri e Gloria.

Ntò cori da notti,
latruni, briganti,
cu grandi forza e arraggia
ti cacciàsti d’avànti.

Da Calabria a terra
ntò cernigghju fu cernùta,
figghjòli, vecchj, casi,
a nà botta, comu nà mbivùta.

Di li visciari arrivàu
du leoni lu ruggìtu,
chi spaventu, chi tirrori,
non c’è scampu po vaggìtu.

Maleficu animali potenti,
di lu mpernu mustrasti lu focu.
sonnu fundu dormènu li genti
arrivàu la morti ntà nu pocu.

Trema lu lettu, trema la casa,
li strati, li chjesi, puru lu mari,
a nuja vanda nu postu sicùru
sulu preghèri pò Santu e li cari.

Cu pala, cu picu, chi mani scavàti,
ndavi vivi ntè casi e puru ntè strati.
Occhj unchjàti senza chjantu
Feriti, morti dopu lu schiantu.

Zammarò, Stafanacuni, Piscopiu,
a vita, i pagghjàri, tuttu sciundìu.
Partiru li genti, s’indijru li figghj,
st’eventu terribili mai u ti meravigghj.

Muntalauni, Zungri, Trupia,
paisi jettàti, duluri ntà facci.
Guvernu rigali tardu arrivasti
nenti facisti du mpacciu mi cacci.

L’ottu è nu numaru comu tant’atri,
venìti e leijti, li fotu guardàti.
È veru si, co tempu passàu
a marvaggità chi eppi nci restàu.

martedì 27 gennaio 2009

La leggenda dei venti

La Leggenda dei venti

Il soffiatore, narra, l’origine mitologica dei venti, identificandoli per come oggi vengono classificati.
Descrivendone le caratteristiche peculiari che li contraddistingue, il loro nome, la loro direzione, in base ai punti cardinali per come rappresentato nella rosa dei venti.
La loro invisibilità e impalpabilità, tuttavia, non ha impedito all’uomo di riconoscerli, individuandoli con il loro specifico nome e a tenerli nella dovuta considerazione.

Le isole Eolie o Lipari nella mitologia greca erano il regno di Eolo, dio e custode dei venti, del dio Vulcano (Efesto) e dei Ciclopi.
Eolo era figlio di Poseidone ed Arne ed ebbe, da Zeus, il compito di controllare i venti.
Esso nella sua qualità di principe, governava una colonia sulle isole Eolie.
Era molto famoso, e raggiunse una certa fama, in conseguenza alla sua sagacia, perchè riusciva a prevedere il tempo in dipendenza della forma delle nubi e di vapori che sovrastavano un vulcano attivo, probabilmente lo Stromboli.
La primaria credenza, era che tutti i venti abitavano in Tracia, secondo una tradizione successiva, nell’ isola di Lipari, sotto la custodia di Eolo, che viveva in una caverna sul mare con la moglie, sei figli e sei figlie.
Dal suo nome le isole furono anche dette Eolie.
Secondo la mitologia greca Eolo dirigeva e li liberava i venti custodendoli dentro le caverne e dentro un otre a Lipari.
Per decisione di Zeus, i venti, furono affidati a Eolo, affinchè venissero tenuti sotto controllo, allorquando, durante le loro scorribande fra i tanti danni provocati, distaccarono la Sicilia dal continente.
Tra questi c’erano quattro fratelli che rappresentavano i venti principali: Borea, il più violento, vento del nord che per amore delle cavalle di Dardano si trasformò in cavallo e generò dodici puledri veloci come il vento; Zefiro, vento dell’ovest, dolce e benefico che annuncia la primavera; Euro, vento dell’est, a volte tempestoso e a volte asciutto che portava bel tempo; Austro, (Ostro) vento del sud, caldissimo e apportatore di pioggia, raffigurato sempre bagnato.
Altri venti sono: Libeccio, vento del sud ovest avvolto dalla nebbia; Cecia, vento del nord est, vecchio con coda di serpente e un piatto di olive in mano; Apeliotes, vento del sud est nelle mani del quale c’erano frutti maturi; Schirone, vento del nord ovest con un’urna piena d’acqua pronta ad essere rovesciata sulla terra.
Eolo ebbe dodici figli, sei femmine e sei maschi che si unirono tra loro creando altri venti.
Fu proprio nelle isole Eolie, secondo il racconto di Omero, che Eolo ospitò il mitico Ulisse quando questi approdò nell’arcipelago siciliano e, commosso dal racconto di costui, gli regalò un otre di pelle dentro la quale erano rinchiusi i venti contrari alla navigazione.
Ulisse, terminato il suo soggiorno a Eolia, imbarcò l’otre e salpò verso Itaca, facendo soffiare solo il dolce Zefiro ma mentre l’eroe dormiva, i suoi compagni di navigazione, convinti che l’otre fosse piena di tesori, l’aprirono liberandone i venti che scatenarono una terribile tempesta che fece perdere alla nave la strada del ritorno quando ormai erano in vista delle coste natie e respingendo l’imbarcazione nuovamente indietro.
'Arrivammo all'isola Eolia. Qui abitava Eolo, figlio di Ippote, caro agli dei immortali. ........ Per un mese intero mi ospitava e mi faceva domande su ogni cosa, su Ilio e le navi degli Argivi e il ritorno degli Achei. ........ Mi diede un otre di pelle, scorticava un bue di nove anni, e dentro vi legò i viaggi dei venti mugghianti. Poi legava l'otre in fondo alla nave con una lucida funicella d'argento, perchè non ne sfuggisse un soffio, anche per poco. Per nove giorni navigammo, dì e notte, e nel decimo ormai appariva la terra dei padri, e già vedevamo gli uomini tener vivi i fuochi: erano vicini. Allora un dolce sonno mi venne addosso, stanco com'ero. E i compagni parlavano tra loro e dicevano che io mi portavo a casa oro e argento, i doni avuti dal magnanimo Eolo. ...... Slegarono l'otre, i venti tutti sbalzarono fuori. E subito li afferrava la procella e li portava in alto mare, tra pianti, lontano dalla terra dei padri. E le navi erano portate da una maligna tempesta di vento ancora all'isola Eolia: piangevano i compagni.'
Per i Greci e i Romani, grande importanza avevano i venti, in quanto, essi scandivano la loro vita nelle principali attività: agricoltura, commercio e navigazione.
Pertanto, i racconti mitologici sono ricchi di rappresentazioni di questi importanti elementi naturali.
Vi erano venti, in particolare quelli derivati da Tifone, mostro capace con il soffio infuocato di portare scompiglio e distruzione, che erano contrari all’uomo.
Il mito dell’Etna si collega direttamente a quello di Tifone.
Quando Zeus scaraventò i Titani nel Tartaro essi non si diedero per vinti.Tartaro, per vendetta, si unì con Gea e procreò Tifone, mostro orribile, alto come le montagne, che aveva torso e braccia d'uomo, ma cento teste di serpente. Nessun altro gigante poteva competere con Tifone per statura e forza: era alato e dalle bocche delle sue cento teste gettava fuoco e mandava ruggiti e sibili.Il mito narra che quando gli Dei videro arrivare Tifone sull'Olimpo scapparono tutti tranne Zeus e Atena.
Zeus, allora, scagliò alcuni fulmini contro Tifone e lo colpì con una falce d'acciaio, affinché non potesse contrastare la sua sovranità.
Benchè ferito Tifone riuscì tuttavia ad avere la maglio su Zeus: avvolto nelle spire dei serpenti, non poté più difendersi e si lasciò strappare da Tifone la falce. Con la falce Tifone amputò a Zeus i tendini delle mani, lo trasportò in una grotta della Cilicia, e nella medesima grotta nascose i tendini, avvolti in una pelle d'orso. Ermes ed Agipan, però, rubarono i tendini e li restituirono a Zeus, il quale riapparve in cielo in un carro tirato da cavalli alati e riprese il combattimento con Tifone.
La lotta durò a lungo ma alla fine Zeus lo incatenò supino sotto l'isola di Sicilia che egli, con la sua mole, occupò tutta, da Capo Peloro a Capo Pachino e sino al Lilibeo e sulla testa di mezzo gli pose come peso il cono dell'Etna.Il mito narra che Tifone rimase per sempre sepolto sotto l'Etna così ogniqualvolta si scuote nel tentativo di liberarsi fa tremare la terra che lo sovrasta, mentre dalla bocca vomita fuoco e fiamme, e sputa cenere e lapilli.
I più importanti, da conoscere, a garanzia di tranquillità durante la navigazione, si diceva fossero i figli di Astreo (il Cielo stellato) e di Eos (l'Aurora); erano quattro: Borèa dal nord, Noto dal sud, Zefiro da ovest ed Euro da sud-est.
Borea od Aquilone, considerato come il soffio stesso di Zeus, è un vento impetuoso che spira dal nord con grande forza, particolarmente venerato dagli Ateniesi, convinti che avesse provveduto, con un tremendo uragano, a sgominare la flotta di Serse, il re persiano che minacciava la Grecia con una colossale spedizione.
Il soffio di Borèa faceva tremare la terra ed agitare il mare, per questo si diceva, in un’antica leggenda attica, che fosse rapitore di fanciulle, si raccontava appunto di Orizia figlia Eretteo, rapita da Borèa mentre stava giocando sulle rive dell’Illisso. Essa divenne poi, dopo questo rapimento, madre delle Boreadi (Calai e Zete), ricordate nella storia degli Argonauti.
Noto, l'umido vento del sud, porta le piogge e rende difficoltosa la navigazione in certi periodi dell'anno.
Zefiro, che aveva generato Xanto e Balio, ossia i due cavalli di Achille, chiamato dai Romani Favonio, è particolarmente gradito perché annuncia la primavera e la bella stagione, favorendo la germinazione delle sementi e la ripresa della natura dal lungo sonno invernale.
Euro, infine, che i Romani chiamavano Vulturno, soffia da sud-est e porta ora la siccità, ora le piogge.
Pure i venti secondari erano tenuti in giusta considerazione, poiché avevano il potere di provocare anch'essi effetti diversi.
Rappresentati in forma umana, con le ali e con le guance vistosamente gonfie nell'emettere un soffio potente, sono altri quattro: Caecias o Aquilone dal nord-est, Apeliotes dall'est, Lips o Africo (poi conosciuto come Libeccio) dal sud-ovest, e Skyron dall'ovest o nord-ovest.
Otto dunque (quante ne vennero raffigurate nell'edificio costruito ad Atene nel I sec. a. C., la cosiddetta Torre dei Venti) le creature quasi divine tenute in gran conto e onorate dalla gente di mare, per la quale sempre hanno avuto precipua importanza, tanto che nella religione romana i venti e le affini tempestates erano collegati al culto di Nettuno.
La Torre dei Venti di Atene - costruita nella prima metà del I sec. a.C. dall'astronomo Andronico di Kyrrhos in Macedonia - è un edificio ottagonale di marmo bianco, di cui ciascun lato, di 3.20 m di lunghezza, è sormontato da un bassorilievo con la raffigurazione di un vento.
Al culmine della Torre si trovava un tritone di bronzo che girava al soffiare del vento e si fermava secondo la direzione di questo, in corrispondenza della figura pertinente nel rilievo.
Sepolta dal terriccio nel corso dei secoli, fu riportata alla luce verso la metà dell'Ottocento dalla Società Archeologica Greca, ed è stata sottoposta a restauri nel 1916-1919 e nel 1976.
Per gli antichi greci, anche i venti erano oggetto di culto, in particolare per chi doveva intraprendere dei viaggi via mare e quindi cercava di propiziarseli con preghiere e sacrifici.
L’arcipelago delle isole Eolie è situato nel mar Tirreno meridionale, sul lato nord orientale della Sicilia.
Le loro coste, nonché il mare sono di incomparabile bellezza con paesaggi di eccezionale e particolare incanto.
La caratteristica, segno inequivocabile della loro origine vulcanica sono: il fango bollente a Vulcano; le isolette e gli scogli che emergono un pò ovunque dal mare; le sorgenti di acqua calda; le bolle gassose che spruzzano l’acqua marina a diversi metri d’ altezza; le grotte di lava nera, sulle cui pareti si ammirano riflessi iridescenti; rocce di varie forme, che ricordano colonne, guglie, pennacoli; per non parlare poi degli scogli, annomati in dipendenza della loro forma: dattilo o dito, rivolto verso il cielo; le formiche: la lisca bianca; la Lisca Nera; Mastro Cilivrasi che dà l’idea di un uomo avvolto in un mantello, con il viso rivolto verso l’alto.
Veramente tante, le leggende esistenti su questi splendidi posti; ogni grotta e antro è ricordato come la dimora di un mostro marino: Filicudi era forse l’isola galleggiante di Eolo; nel cono nero di Vulcano cavalcò il cavallo di Teodorico, re dei Goti, che si spinse sull’orlo del cratere e precipitò con il suo cavaliere in un mare di fuoco.

U HJUHHJATURI (Il soffiatore o il vento)

U HJUHHJATURI
Utri unchjàta, di li setti appanzunàta
lesta canta la nzapògna sonatùra di friscàta.
Ciaramejàru, hjatatùri d’ogni tempu
a Eolia o Lipari lu cumbèntu.
Vo signurìa ntrà l’arcipelagu tenitili boni
ca ndi spagnàmu pè li danni e li distruzioni.
Siculi ncarceràti a lu confìnu di lu continenti
e tempi di li tempi pe nu spiziu mpertinènti.
Pe curpa vostra, libbari a Brigghja sciorta
alluntanastivu la trinacria i mani storta.
A penitenza è dintra na peji, jocu siti mbujàti
Sulu lu patrùni, si boli, vui hjatàti.
Già nà vota, pè chiji marinàri ndubbitàti
di Troja lu guerrèru perdìu li stràti.
Nuju vi vidi, né s’arrèsci u vi toccàmo
comu l’arburu pega, però sapìmu u vi chiamàmu.
Li jorni chi sii forti di settentriùni,
Borea, li cazzi toi li spochi pè mari, terri e pè vajùni.
Quandu arrivi du ponenti e si duci i caramellu
Zefiru cangia la stagiuni, mutàmundi lu mantellu.
Du levanti manticiji tempestusu,
atri voti asciuttiàtu, Euru sii davèru curiùsu.
Di li parti nostri hjuhhj debuli e stancu
Du meridiuni, Ostru non è capaci u teni vancu.
Ma non finìu ccà lu hjatatùri
Figghj, nipùti, d’arràzza sempri puri.
A stija i Rosa, ottu di cunta ntà tuttu lu frunti
n’atri quattru a menzu all’atri quattru punti.
Cuminciàmu i sutta, no pè preferenza
ma pecchì vogghju mu si capisci la mia appartinènza.
Aria cadda chi tagghja lu hjatu
di lu menz’jornu orientàli, rina di Sciroccu vola atu.
Friddu, tagghjenti, comu lama di rasolu
I nord orienti, lu grecàli janchìja lu solu.
Gridànti e sperzànti di forza prepotenti
Lu maistràli, vota la manica a meridiuni i l’orienti.
Quandu arriva l’ammaraggiàta e chjovi cu li cati
lu marinàru dici c’a libecciu sugnu ligàti.
Eccellenti comandanti nommu t’addormenti , di tia abbisognàmu
ti vozzimu tantu beni e na sula cosa ti cercàmu
hjatija sempri e quandu voi
risparmiandi però li jorni di li nervi toi.

lunedì 26 gennaio 2009

IL SOFFIATORE (il vento)

Otre sazia, dai sette ingravidata.
Lesto sfiato di zampogna suonatrice di fischiata.
Ciaramellaro soffiatore d’ogni tempo
di Eolia o Lipari il convento.
Maestà nell’arcipelago teneteli buoni
pè paura di danni e distruzioni.
Siculi cavalli confinati la dal continente
dai tempi dei tempi pè sfizio impertinente.
Bizzarri destrieri, liberi a briglia sciolta
allontanaste il trinacria di mano storta.
Nell’eterna pelle sigillata, prigionieri scalpitanti
d’ogni via, canti d’ urla mulinanti.
Già prima,dubbiosi, d’Itaca marinari
l’ombelico, sturato hanno sui sette mari.
In pari tempo non v’è occhio per sbirciare
né mano giusta l’incorpore palpare.
A tal mistero, inchino regale pe onorarvi
Stranezza vole che si sa come chiamarvi.
Nelle notti ei dì, scorazzante da settentrione
Schiumeggia il mare, a Borea piegasi il pennone.
Ti s’ aspetta da ponente, melissato a primavera
delizioso Zefiro, sibilo d’amore d’una capinera.
Alba di vita sorgente dal levante
Da li, asciutto o furioso, Euro è imperversante.
Da meridione in loco giungi fievole
dal lontano Ostro, tocco carezzevole.
Unico custode di cangiante buffo del soffiatore
dinastia Eolica amorevole curatore.
Doppio di quattro con altro doppio su tutto il fronte
stella in mezzo all’ altre quattro punte.
D’otto cardinali il nesso comincia a mezzogiorno
Ruggente tempo, natio punto a cui sempre torno.
Afa scirocca del mezzo dì orientale
fornace di ghibli sullo stivale meridionale.
Gelido tagliente aere, respiro del nord oriente,
Ellenica membranza timore riverente.
Urlante, sferzante, Maestro prorompente
coda di manica a sud d’oriente.
Connubio d’acqua, ribollio marino,
Turbine di libeccio indomo, vento malandrino.
Eccellente comandante, governa l’aere sul mondo,
sii calmo, mite, non iracondo.
Fiata sempre e quando vuoi
Risparmiandoci i giorni dei nervi tuoi.

PERSEPHUNA (Dialetto Vibonese)

PERSEPHUNA

Loggia di lu Patri beneditta,
specchjanti ntà lu mari di Lampetia.
Storia e faragula la menti teni airta.

Carizza di Zefiru, Odissèo dici.
Rosa ventusa chi du ponenti hjati
Sulu ccà, sii accussì duci.

Suavi Vista di li Ciclopi Terri.
Forza potenti ntè visciari gugghjenti.
Barchi juntati all’ariu di li cirri.

Elìa e Muzzari arridinu ntra lu gurfu,
figghj ammelàti du cchjù atu Riventinu.
Ntra lu menzu v’è Caronti fumaturi di lu zurfu.

Cchà, propriu cchà, li pii a ttia votàti
Dezzàru ricunuscenza cchjù c’allatri.
Mammata perpetua lu vernu cu la stati.

Guardiana petra d’Ipponiu lu munti.
Surgiva casa di Persephuna liggenda.
Rispettu e divozioni a ttia pemmu ndi cunti.

Figghja, discindenti di famigghja ndivinata.
Siminata di lu rumbu ntra la terra
Fruttu nobili, di mamata ncarnata.

Di hjancu all’acqua trisceliana di Pergusa,
t’abbrazzau l’umbra rignanti.
Gnura di lu scuru cantau la musa.


sei coccia di frutta magàra arrubinata.
Porta chjusa a lu suli accaluranti.
Mugghjeri d’ Adi pè sempri distinata.

Sbentura, perdita grandi.
Li messi non vozziru cchju di chi sapìri,
capizzàli i morti, tu cumandi.

A la porta di lu suli s’abbussàu cercandu.
Pocu riposu subba l’agelasta petra.
Lu patri di li patri azàu lu jiditu pè cumandu.

Sei coccia, tantu, pè li misi all’annu,
mu si torna a la terra in paru tempu.
S’apri la porta di l’Avernu senza affannu.

Stigi, stortu a lu traguardu porta,
D’avanti nu guardianu i natru mundu.
Ribbrezzanti mastinu pè cui non era morta.

Felinu nimaliu a tri testi orripilanti
L’animi alluntàna senza mu hjata.
Tirrori di lu pilu asserpentatu sibilanti.

Psicupompu avi la via, quando iju voli.
Nu viaggiu ntrà lu nigru mundu.
Demetra a Persephuna profumu di violi.

A nà nticchja di nu lustru a menzu, du menzu, di lu menzu,
nu cronu signa metà di lu annu,
cacciati vannu dui misi e dui jorni e menzu.

Cielu bellu, caddu e suli longu doppu lu viernu,
signanu di sempri li stagiuni
Onori a Persephuna chi nchjana di lu mpernu.

Ma… e ,si non fussi statu?
Non è megghju mò, grazzi a lu ngannu?
Ma… è liggenda o storia e fatu ?