lunedì 2 febbraio 2009

STORIA DEL SISMA DEL 1905

STORIA DEL TERREMMOTO DEL 1905
U tarramotu: in poche battute, racconta in versi dialettali, la catastrofe sismica che si verificò nella terra di Calabria nel 1905 e che rase completamente al suolo diversi paesi del circondario di Monteleone ( l’attuale città di Vibo Valentia) cagionando oltre seicento morti. Il successivo terremoto, ancor più catastrofico, verificatosi nel 1908 che provocò circa centomila morti, ha fatto si, che per effetto di un meccanismo difensivo della psiche umana, rispetto a due cataclismi verificatisi in pochissimo tempo, rimuovesse e collocasse in una sola data entrambe i terremoti. Di fatti, si parla solo del sisma del 1908.
La Calabria, già terra di sventura, di povertà, di emigrazione, di sofferenza, di sfruttamento, aveva conosciuto l’oppressione dell’esercito, pepetrata ai danni delle ribellioni contadine anche se ufficialmente l’intervento dei soldati e dei carabinieri era diretto contro il banditismo meridionale.
Stringe veramente il cuore mentre leggo le cronache dei giornali di allora, a riscoprire nelle denunce di quel periodo, l’antico malessere italiano, la lentezza dei soccorsi, il disagio e la sofferenza nell’attesa d’aiuto, la generosa solidarietà del Paese, la visita delle autorità.
A distanza di un oltre un cinquantennio il mezzo giorno d’Italia viene falcidiato nuovamente dal tremendo valzer che madre terra decide di ballare in Irpinia. Il tempo è come si fosse fermato nel 1905 e nel 1908 o ancor prima nel 1894 fino ad arrivare al 1783. Stessi problemi, stesse angosce, stessa generosità del Paese, stessa solita visita delle autorità, mai che la gente durante la criticità del disagio e del dolore, possa sentirsi vicino lo Stato, solita lentezza e inadeguatezza nella ricostruzione, solite ruberie.
Come se non bastasse, a tutto ciò, si aggiunge, il malessere della terra colpita da febbre alta indotta da brividi incontrollabili.
La poesia termina con la considerazione che non si conosce la data quando il terremoto colpirà nuovamente, la cosa certa, è che la sua malvagità distruttiva e omicida non è mutata.
Alle 2,45 della notte tra il 7 e l’8 di settembre del 1905, quando la popolazione calabrese, in particolare, quella residente nella fascia centrale della Regione, nei circondari di Monteleone e di Nicastro, stava dormendo, con un boato terrificante, la nostra bella terra è stata scossa con violenza tale da far crollare quasi tutte le case e le baracche esistenti nei luoghi interessati dal sisma.
Le vittime del terremoto furono 557 e 2615 i feriti.
Furono distrutti o gravemente danneggiati 326 comuni con un totale di 753 centri abitati, 135 in provincia di Catanzaro, 107 in quella di Cosenza e 84 in quella di Reggio Calabria.
In tutte e tre le provincie le case distrutte sono state 8220.
Quasi completamente distrutti furono: Zammarò (70 morti), Parghelia (62), Piscopio (60), Stefanaconi (65), San Leo di Briatico (24), Aiello (23), Martirano (16), il rione Forgiari di Monteleone (6 morti e 26 feriti).
Ma gravi danni e numerosi morti e feriti ci furono in pressoché tutti i paesi e paesini dell’area colpita, Tropea, Pizzo, Mileto, Zungri, Cessaniti, Sant’Onofrio, Triparni, San Costantino.
Saverio Di Bella scriveva: nel ricordo delle case crollate, dei superstiti intontiti, dei morti tolti alla terra delle case per essere consegnati alla terra dei cimiteri, dei corpicini dei bambini sui quali si era abbattuta la furia dei cani prima che la pietà dei sopravvissuti li recuperasse alla cristiana sepoltura, qualcuno piangeva in silenzio.
E sapeva già che ogni paese e ogni città della zona aveva la sua piaga aperta, il suo rione baracche, la sua memoria di terrore e di morte, la paura collettiva mai rimossa che la tragedia si ripetesse…..
In effetti dopo il terremoto del 1905 ci fu quello, ancora più devastante e geograficamente esteso del 28 dicembre 1908. Quest’ultimo, anche per effetto del maremoto, annientò Messina e Reggio Calabria.
Sul Corriere delle sera del 12 settembre 1905 per mano di Luigi Barbini, si leggeva: nella emozione, nella concitazione di quest’ora, non posso che gettarvi un grido d’aiuto; più tardi saprete in dettaglio quanto avvenne di spaventoso, saprete le stragi che la terra ha commesso, le infamie di questa terra che pur gli uomini chiamano madre…..Qui intorno si muore di fame e di sete: i soccorsi, per quanto alacremente portati, non bastano; manca il pane ai sani, la carne ai feriti, manca l’acqua, manca il ricovero ai morenti.
Intorno ai paesi una lugubre folla dolente si accascia: vi sono ventimila persone che perdono tutto, che non hanno neppure recipienti per andare alle lontane fonti per attingervi; sono silenziose moltitudini che non possono staccarsi dalle rovine delle loro case, dove i cari morirono e che, stordite, aspettano senza forza quegli aiuti che non arrivano mai.
In alcuni luoghi come Monteleone, poche case crollarono; ma negli abitanti v’è ora il terrore della casa.
Essa è il nemico. Nessuno ardisce più affidarvisi. L’amato rifugio, il desiderato luogo del riposo, rinchiude un tradimento, non protegge più, ma uccide; e tutta questa misera gente guarda dalla strada la sua abitazione come si guarda un mostro, scorgendovi una minaccia ad ogni fessura che si rivela sui muri.
Nuove scosse arrivano ogni tanto; Ognuna di esse è seguita da un urlo della folla.
Fortunatamente le zone del massimo disastro sono piccole e non molto popolate, altrimenti la catastrofe sarebbe stata senza precedenti fra i numerosi delitti della natura.
Qui sembra che Monteleone sia stato il centro del movimento sismico e, per un fenomeno che ricorda i tifoni, il centro non ebbe i massimi danni, ma intorno le grosse borgate vennero rase al suolo.
Trovai il loro aspetto immensamente più spaventoso che non quello delle città bombardate, poiché in alcuni luoghi nulla, proprio nulla rimane.
I primi segni del terremoto si scorgono alla stazione di Sant’Eufemia, mezzo demolita, ma molto prima ancora si scorgono i segni del terrore.
La zona della paura è sempre più vasta della zona del pericolo.
Tutte le popolazioni sono fuggite dall’abitato e s’accampano sulle sabbie del mare.
Si vedono strani e multicolori attendamenti.
Gente venne dalla città alla spiaggia, altra discese dalle colline e tutte si stabilirono in questi nomadi villaggi lungo la riva, ….
I treni procedono lentamente. Si scorgono crepacci sulla banchina ferroviaria, bordeggiata da gerani fioriti.
Ecco Pizzo. Non sembra molto danneggiato, ma si vedono alcuni tetti crollati, coronamenti di edifici caduti, ventri infranti.
Alle finestre delle case disabitate non un abitante; per le vie ingombre qua e là calcinacci; sulla spiaggia si comincia la costruzione di baracche di legno.
Mentre il treno passa avviene una leggera scossa e l’angolo di una chiesa frana sollevando un nuvolo di polvere. È la chiesa di San Giorgio.
Scendo alla stazione di Monteleone intatta, ma quando la strada carrozzabile comincia ad arrampicarsi sulla montagna m’imbatto sulle rovine di una villa, di cui non rimane che un pilastro in piedi, portante in una lapide scritto il nome dell’edificio scomparso: villa Lordo. Gli abitanti sono salvi per miracolo.
Si sale ancora e si attraversa il villaggio Longobardi, un grazioso villaggio di emigrati in America costruito tutto con danari guadagnati penosamente. Poco alle donne è rimasto. Ogni casa è spaccata da larghi crepacci minacciando rovina. Gruppi di donne seggono in mezzo alla piazza e guardano stupefatte. Anche la chiesa è in pericolo.
Si sale ancora faticosamente. Monteleone occupa il culmine della montagna .. Sulle sue falde sono disseminati i villaggi colpiti dal flagello. È questa la montagna che ha tremato.
Nel centro della città i danni visibili sono pochi: volte crollate, cornicioni staccati, comignoli caduti; ma non è una distruzione. Invece una via di essa, scendente verso il sud nel rione dei Forgiari, è demolita. Le chiese pencolano, le case sono sventrate, i tetti sono caduti.
Questa strada, lunga un duecento metri, è stata scossa da una furia terrificante. Imposte divelte, rovesciate, gettate sulla strada con le loro tende aggrovigliatesi ai rottami come se le avesse spinte dall’interno un poderoso scoppio di esplosivi: ferri contorti delle balconate, che sostengono pietre oscillanti, a cui rimangono infisse delle travi; pali telegrafici abbattuti di traverso, fisse delle travi telegrafiche abbattute di traverso alla strada come fuscelli, fra un intrigo di fili spezzati; macerie, calcinacci ingombrano l’acciottolato; una folla esterrefatta guarda, senza osare d’appressarsi ai muri che lasciano cadere ogni tanto pietre, sollevando dalla gente grida che sembrano una risposta indignata.
Mentre mi trovo qui, una gran calca si appressa. È il Re circondato dal popolo, che, lasciato l’automobile, percorre a piedi la strada in rovina, e guarda commosso.
Si leva di tanto in tanto un grido “ Viva il Re ! “ Ma non v’è forza d’esultanza. Pare che dicano aiuto, tutti quei volti pallidi e tristi…
La popolazione si accampa negli orti, nelle piazze, in tende improvvisate con coperte.
Continuando a discendere a una svolta si scorge improvvisamente un accatastamento informe di travi di muri, una confusione di ruderi, ai quali il gran golfo di Sant’Eufemia azzurro pone un meraviglioso sfondo ridente. È Triparni distrutto. Ogni casa è crollata e le travature dei tetti risollevantisi tra le macerie sembrano costole e ossami giganteschi. Vicino al loro paese morto i superstiti da quattro giorni stanno come inebetiti.
Dalle macerie sono stati estratti 39 morti. Lì sull’erba sono ancora distesi i feriti che non v’è mezzo di trasportare.
Un ufficiale medico li soccorre e li assiste, ma tutto manca. Quando io arrivo, la folla mi viene incontro, poi mi seguono con implorazione.
Il parroco, un grosso uomo in lacrime, un atleta che piange, mi afferra le mani dicendomi: “ Signore, signore, manchiamo di pane. Ieri ne avemmo un boccone per uno, un chilo ogni sei persone, niente altro.
Scaviamo le macerie con le mani per cercare qualche cosa da mangiare rimasto sepolto. Non abbiamo acqua. La fonte del paese si essiccò e l’altra fonte è lontana.
Nessuno ha la forza di andarvi. Guardate, i feriti non hanno vino, né brodo, niente, nemmeno le uova.
Debbono mangiare un boccone di pane e alcuni muoiono”.
Vedo infatti una povera donna sdraiata presso un tronco di olivo. Sui suoi occhi scende il velo della morte. Essa ebbe le costole fratturate. Altri feriti gravi sono distesi all’ombra e debbono essere trascinati in giro, a mano a mano che l’ombra cammina. Vedo dei bambini feriti e non s’ode un lamento. Il silenzio è impressionante. Delle donne sedute in terra, immobili, sembrano statue del dolore.
Alcune perderono i figli. Un gran panno nero, caratteristico ornamento delle donne calabresi, scende dalla loro testa sulle spalle come un vero manto di lutto.
Negli altri paesi colpiti lo spettacolo non è meno straziante.
Stefanaconi, a qualche chilometro da Monteleone sul versante sud della montagna, era una cittadina di duemila abitanti e rimase distrutta. Passando vicino alle poche case che sembrano intatte, ci si accorge che vi sono solo mura maestre, delle vuote finestre e delle facciate. Si scorge il cielo attraverso i soffitti sfondati. Alcune abitazioni dai due lati della strada sono cadute in avanti come per precipitarsi una verso l’altra, schiantando gli alberi che ornavano in filari la via. Ora dei ciuffi e dei rami spuntano fra le macerie… Quasi tutti gli abitanti sono feriti; venti sono moribondi, sessantasei, morti, sono stati estratti dai rottami e dalle macerie. Benchè scacciati e minacciati, gli abitanti superstiti non sanno abbandonare definitivamente le mura che seppelliscono il segreto di una quiete domestica finita per sempre. Il sindaco del paese, cav. Carullo, mezzo svestito ancora perché tutto gli rimase sepolto, mi mostra le rovine del palazzo comunale e poi quelle delle sua casa, dove due ragazze sono rimaste uccise. “ Questa piazza, mi dice additandomi uno spiazzo ove ora sono accampati gli abitanti, era piena di cadaveri allineati e sporchi di sangue. Ed era uno strazio vedere i parenti abbracciarli e baciarli morti !” Poi aggiunse : “ Vennero trasportati via sopra carri di buoi come gli appestati di Milano !“ Anche qui la fame aggiunge i suoi orrori alla immensa sciagura. “ Pane!” “Vestiti!” “Siamo nudi!” “Abbiamo fame!” – si sente mormorare con voci nelle quali trema il pianto…
Piscopio, separato da Stefanaconi da una precipitosa e angusta valletta, venne non solo distrutto, ma raso al suolo. In molti punti i cumuli di macerie sulle strade superano in altezza i ruderi rimasti in piedi. Impossibile immaginare rovina più grande. Tutto il paese non è che un ammasso di calcinacci, di travi, travicelle in parte sgangherate e scheggiate, di imposte divelte, di vetri rotti, di pezzi di suppellettili.
In un piano circondato dal più folto uliveto e dalle vigne più verdi che la terra abbia mai nutrito, di un migliaio di abitanti 275 sono feriti e 59 sono morti.
Qui la desolazione appare più grande. Non so perché, ma sembra che i soccorsi non siano stati distribuiti qui come altrove, per quanto ovunque in misura insufficiente agli immensi bisogni… La folla mi circonda. Alcuni piangono. Sono uomini gagliardi, sfiniti dagli stenti. Mi sento dire: “ per carità, del pane… da ieri non mangiamo…Ho quattro figli che muoiono di fame…Noi stiamo cadendo come cani.. Ieri mezzo chilo per sette persone… A me niente…Io neppure”. Tra tutta questa gente vi sono i rassegnati e sono tanti e tanti.
Seduti ai lati delle strade, non guardano, non parlano, non si muovono, impietriti, curvi sotto il peso della sventura. Pallidi, alcuni col viso nascosto tra le mani, aspettano.
Le stesse scene, la stessa sofferenza, la stessa atroce ingiustizia della sorte trovo a Zammarò distrutta, Parghelia distrutta, a San Costantino distrutta. È stato un pellegrinaggio tremendo, il cui ricordo mi tormenta, mi affanna ancora, perché in questo male di dimenticati nostri fratelli – male che non è solo causato dalla violenza omicida di un cataclisma, ma da cause antiche e note – in questo male mi pare di avere come italiano una parte misteriosa, indefinibile di responsabilità, quella di non aver mai pensato, come nessuno ha pensato, a questa fiera, generosa gente della mia patria, che anche senza terremoto ha tanto sofferto e soffre.

TERREMOTO

TERREMOTO

Il ricordo è ancora amico,
un secolo è la memoria,
pè i morti suoi Pater e Gloria.

Nel cuore della notte
ladrone, brigante,
vigliacco rabbioso, di morte
spazzino arrogante.

Di Calabria, la terra
Nel setaccio è cernuta,
pargoli, vecchi, case,
d’un colpo come na bevuta.

Dalle visceri arrivò
del leone il ruggito
spavento, terrore,
non v’è scampo pel vagito.

Malefico animale, bestia potente
degli inferi mostrasti il fuoco.
Sonno profondo dormiva la gente
Giunse la morte di li a poco.

Trema il letto, trema la casa,
le strade, le chiese, pure il mare,
nessun loco è nido sicuro
inno al Santo, a ginocchioni pregare.

Con pala e piccone, con le mani scavate,
c’è né vivi nelle case e nelle strade.
Occhi gonfi senza pianto
feriti e morti dopo lo schianto.

Zammarò, Stefanaconi, Piscopio,
la vita, i pagliai, tutto distrutto
parte la gente, di pane è desio,
di st’evento terribile, nulla è più brutto.




Monteleone, Zungri, Tropea,
paesi rasi, dolore, fame, mesta è la gente.
Narcolettica corona del disastro correa,
dovuta visita e poi niente di niente.

Il cinque, l’otto, data antica, sorte severa,
venite, leggete, le foto guardate.
L’ora che fu, è vera
crudele e malvagio, è rimasto com’era!